Immaginate di essere in trepidante attesa di vedere il ritorno a Raw di Goldberg, un lottatore che avete visto in azione l'ultima volta oltre 12 anni fa, quando eravate decisamente più piccoli e ancora credevate che in fondo Kurt Angle e Triple H fossero cattivi anche nella vita di tutti i giorni.
Immaginate di essere riusciti a ottenere di vederne il primo passaggio in tv in lingua italiana nella democratica suddivisione del telecomando con la vostra fidanzata, causa fortunata concomitanza di orari con l'inizio della serie americana di cui lei non si perde una puntata.
Immaginate quindi di assistere a tale momento insieme a lei, a cui avete coattivamente instillato nozioni di wrestling in anni di frequentazione.
Bene, arriva Goldberg e assistete all'evento entrambi in silenzio totale. Chi per non perdersi nulla, chi fondamentalmente per disinteresse.
Fino a che a voi scappa una considerazione, con il cuore: "Caspita, quanto è emozionato!". La controparte osserva e ribatte: "Ma va, starà recitando".
Certo, dal suo punto di vista la considerazione non fa una grinza.
Quante volte le avete spiegato il funzionamento dello show e le reazioni di gioia, rabbia, dolore e emozione in realtà programmate a tavolino e perfettamente rese (da chi più e da chi meno) al momento di presentarsi sul ring?
Già, ma stavolta era diverso.
E voi lo sapevate.
Quello che si è visto sul ring di Denver, in Colorado, è stato un uomo di 49 anni che è stato sopraffatto da un'emozione che non credeva che avrebbe provato. E che l'ha travolto. Un uomo di 49 anni che sa che fino ai 37 era stato trattato come una leggenda vivente e poi come un campione come tutti gli altri, e non l'aveva sopportato.
Dicendo basta. E che da allora si è nutrito del rancore che ha provato per chi ha rotto il suo giocattolo perfetto. Ma poi si è riscoperto eroe, con il figlioletto Simon lì a guardarlo, e non ce l'ha fatta.
Facendo uno strappo al copione, uscendo dal suo personaggio di uomo duro, implacabile e tutto di un pezzo e mostrandoci un Goldberg forse mai visto pubblicamente. Un Goldberg umano. Fragile. Un Goldberg che piange.
Le lacrime e il wrestling.
Qualcosa di già visto in passato. E qualcosa che, come si capisce chiaramente dalla situazione analizzata a inizio articolo, può portare a fraintendimenti. Anche tra chi il wrestling lo mastica ben più della nostra ipotetica fidanzata.
Prendiamo ad esempio questa immagine:
Ritrae The Miz pochi istanti dopo aver perso la sua cintura di campione intercontinentale a No Mercy per mano di Dolph Ziggler.
Il Magnifico sapeva bene che avrebbe perso il titolo quella notte e oltretutto sappiamo tutti quanti che è un ottimo attore, ancor prima che un eccellente lottatore. Ma quelle lacrime hanno diviso. Qualcuno le ha viste come un ottimo lavoro di un professionista, altri come un ulteriore balzo di qualità del lottatore Miz, finalmente colpito da una sconfitta per quello che rappresenta, altri ancora ci hanno addirittura riso sopra.
Ma come, uno dei protettissimi della WWE che perde un match predeterminato e piange?
Andiamo oltre e pensiamo ai momenti più toccanti a cui abbiamo assistito su un ring WWE. Pensiamo agli annunci di ritiro di Edge o di Daniel Bryan, con il lottatore in questione e l'intera arena in lacrime.
Pensiamo al novembre del 2005, alla morte di Eddie Guerrero e ai pianti a dirotto della gente di Minneapolis, ma anche di Chavo, Chris Benoit, Rey Mysterio, Shawn Michaels, Kurt Angle, Big Show, JBL, Triple H e Batista.
Emozioni autentiche.
Che non possono che essere riconosciute come tali. All'interno di un contesto però in cui simulare le emozioni è all'ordine del giorno. E allora torniamo alla questione di partenza: chi ci autorizza a bollare una lacrima come più autentica di un'altra? Lo può fare solo chi conosce a fondo ciò che accade nella mente e nel cuore di chi la produce.
Insomma, chi vive nella vita di tutti i giorni al fianco del wrestler commosso. Certo non noi che stiamo a casa a guardare da un divano pronti a giudicare, lodare o insultare questi lottatori che prima ancora che professionisti sono esseri umani.
E allora il ricordo torna all'anno scorso: Survivor Series, Roman Reigns vince il titolo di campione del mondo.
Pochi minuti dopo però lo perde, battuto da Sheamus che incassa la sua valigetta del Money in the Bank. Roman viene inquadrato al centro del ring, mentre piange.
Quelle lacrime sono state stigmatizzate da molti. Roman non doveva essere lì, Roman era reduce da un anno in cui era stato pushato in ogni modo possibile dalla federazione, Roman sapeva già che avrebbe riconquistato la cintura.
Roman non è autentico.
Ma chi ce lo dice che il Mastino stesse recitando e Goldberg no?
Chi ci dà l'autorizzazione a giudicare le lacrime di qualcuno e bollarle come una buffonata da quattro soldi, mentre quelle di un altro ci toccano l'anima e ci fanno provare empatia per lui?
Nessuno.
Ma probabilmente questi sono i rischi del mestiere. Un mestiere in cui a volte la realtà si può mischiare con la fantasia, la vita vera con la narrazione scenografica, l'emozione con la mera interpretazione. E così un pianto può valere più di un altro. Anche se magari - chi lo sa? - l'emozione che lo provoca potrebbe essere altrettanto autentica.
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